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Omelia S. STEFANO del 26 Dicembre 2013

So26 Dicembre 2013 – Santo Stefano – At 6ž8-10.12;7ž54-60; Mt 10ž17-22 Il vangelo di oggi è quasi terrorizzante: il fratello farà morire il fratellož il padre il figliož etc. Sono prospettive prese dal cap. 10 di Matteož quello che lui dedica allŽistruzione per gli apostoliž i predicatori. Come mai il piano di Dio non comprende lŽeliminazione di questa possibilità di essere odiati a causa del vangelo? Come mai la venuta del Figlio di Dio nella storiaž per aiutare gli uomini a diventare quello che Dio vuole che sianož non ha scelto lŽefficaciaž la riuscitaž il successož la vittoria del bene sul male? Come mai Dio ha voluto che tutto passasse attraverso un piccolo gruppož che nel corso della storia della chiesa è apparentemente diventato quasi la totalità della popolazionež ma non ha impedito che gli uomini continuassero ad odiarsi e a combattersi? E anche adesso facciamo finta di non vedere il bisogno della maggior parte dellŽumanità e continuiamo a curare il nostro benesserež senza rinunciare a niente e senza cambiare il nostro modo di vivere. Perché Gesù non ci ha dato degli aiuti più concretiž o siamo noi che non abbiamo sfruttato i suoi consigli? Brani come il Prologo e il Vangelo di oggi ci fanno capire che Gesù dice paradossalmente ai suoi discepoli: voi andatež lo Spirito Santo vi darà la capacità di trovare delle buone parole! Niente di più! Perché la frase dove si dice: non preoccupatevi perché lo Spirito Santo parlerà in voi e darà testimonianzaž alla fine è un modo di trasformare in un annuncio evangelicož che non verrà ascoltatož la fedeltà del martirež che però lí perde la sua vita. EŽ un mistero grande questož di questa scelta divina di non cercare la vittoria. La visione tradizionale della chiesa infatti spostava tutto nellŽaldilà. Il cristianesimo è diventato per questo una tensione continua alla beatitudine dellŽaldilà. Solo che questa tensione allŽaldilà non viene più nemmeno pensataž diventa difficilmente immaginabile allŽuomo di oggi. EŽ cosí concentrato nella gestione delle cose di questo mondo che comincia a domandarsi se ci sia veramente un aldilàž o megliož se siamo veramente destinati ad attraversare questa fase terrestre della vitaž come se non fosse la nostra vera vitaž per raggiungerne unŽaltra dopo la morte. Questa promessa di una vita dopo la morte rimane probabilmente soltanto valida per coloro che non trovano nessun confortož nessuna consolazione in questa vitaž nessun impegno morale in questa vita; forse per loro può essere ancora spontaneo pensare a un dopomorte. Questi cambiamenti culturali sono anche quelli che ci rendono difficile capire la valorizzazione del martire. Noi preferiremmo che il martire riuscisse a sfuggirež a evitare la morte violentaž e potesse continuare a dare un esempio nella vita. La Giovanna Francesca di Chantalž una santa della Savoia del 1570/1640ž che ha fondato le suore della Visitazione del monastero di Soresinaž era una nobildonnaž sposata e con figliž che rimasta vedova si dedicò a preghiera e vita religiosaž e sotto il consiglio di san Francesco di Sales fondò questo ordine di suore. Le suore un giorno la interrogarono sul martirio. Nella storia della chiesaž specialmente nel mondo dei conventi femminiliž ogni tanto compare questo ardore del martirio; anche la santa Teresa del Bambino desiderava partire per le missioni e morire martire; in certi ambienti si era creata questa specie di “idolatria” del martiriož come se fosse il modo migliore per onorare Diož e soprattutto per dimostrare lŽamore verso Dio. Quasi si portava alle estreme conseguenze quella caratteristica che una volta si pensava fosse la caratteristica della femminilitàž di dedicarsi al bene degli altri con assoluta sottomissione alla volontà di Diož come persone che si sacrificano per il bene dei figliž della famigliaž dei parenti; questa “vocazione” al sacrificiož che si riteneva tipica della figura della donnaž loro la spingevano fino al punto di rammaricarsi di essere persone deboliž che non potevano partire per le missioniž e cosí non potevano affrontare la possibilità del martiriož quasi che lŽessere uccise per amore di Cristož potesse rappresentare il culmine della loro consacrazione. La nobildonna risponde con molta saggezzaž e dice: il primo martirio non è quello fisico della mortež ma è quella morte di noi stessiž che la rivelazione di Cristo porta nella nostra vita interiore. EŽ san Paolo che dice questo: quando noi siamo battezzati il nostro uomo vecchio muorež e quellŽattenzione alla realizzazione di noi stessiž quella specie di idolatria della nostra personalitàž dovrebbe essere sacrificata a Dio. Il vero sacrificio è diventare buoniž superando tutti i difettiž i limitiž le maniež del nostro temperamento e carattere. Lei dice: è questa la vera morte che si deve fare per Cristo. Quel miglioramento di sé che finisce per sopprimere tutto quello che non è gradito a Dio nella tua vita. Questo è il primo modo di essere martiri. EŽ interessante questo; non è la morte che decidež e non è neanche lŽaldilà in quanto talež quello che conta è diventare diversi in questo mondo. Per molti di noi il riuscire a migliorare il proprio carattere è unŽimpresa quasi impossibile; sarebbe proprio necessario capovolgere quel desiderio di essere come siamo e come ci piacerebbe. Poi fa unŽaltra osservazione e dice: il martirio estremož come quello di Santo Stefanož Dio lo riserva ad alcune personež è unŽeccezione; per la maggior parte delle persone ci sono due altre vie; ci sono delle persone di cui Dio sembra disinteressarsiž e queste le lascia vivere la loro vita mediocre; per alcuniž come voi che siete venute in questo conventož Dio dà unŽaltra possibilitàž quella del martirio della vita quotidiana; e fa qui una battuta ben trovata: il martire soffre perché perde la vitaž il vero martirio è quello di coloro che soffrono per conservarla! Questo fa pensare per esempio a certi malatiž o quando il vero martirio è la fatica quotidiana di continuare a lavorare con faticaž come succedeva a quei tempiž un poŽ meno oggi; il conservare la vitaž che diventa più difficile del morire. Santo Stefano se lŽè sbrigataž tragica la situazionež ma alla fine in due giorni è finito tutto; quelli che devono tirare avanti anniž e non nelle estreme sofferenzež ma anche semplicemente nel continuare a tirare avanti con un tram tram quotidianož che non ti dà mai respiro; quella monotonia della vita quotidianaž quella fatica continua per ottenere quasi nientež il non avere mai delle vere e proprie soddisfazioniž questo è quella uccisione di séž o meglio quella uccisione di quellŽimplicito desiderio di gioia e spensieratezza che tutti coltiviamož per essere fedeli a un dovere. Anche quandož come oggi si dicež non se ne capisce il senso. A che prož perchéž per andare a finir dove? Ubbidire allŽinsensatezza della vitaž quando essa diventa insensataž questo forsež diceva la santaž è il modo di essere veramente martiri.