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Omelia III QUARESIMA C del 7 Marzo 2010

L’ho già fatto in qualche anno passato¸ ma penso che sia il caso di dare rilievo alla prima lettura¸ in questa domenica¸ perché è un testo di capitale importanza per la storia della religione di Israele¸ che poi noi abbiamo ereditato. E’ il famoso testo nel quale verrebbe data la rilevazione del nuovo nome di Dio¸ quello che nella antica lingua ebraica si pronunciava Yahvweh e che poi gli ebrei del post esilio decisero¸ per uno strano senso di venerazione¸ di non pronunciare più sostituendolo con delle perifrasi¸ o con altri nomi¸ sacralizzando questa parola e andando contro quello che diceva il testo dell’Esodo¸ perché anche loro son capaci di essere infedeli alla parola di Dio. “Questo è il mio nome per sempre. Questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione”¸ e loro hanno deciso che questo nome¸ con il quale Dio vuole essere ricordato¸ non deve essere pronunciato per rispetto. Fatti loro. Anche noi¸ per cortesia verso gli ebrei¸ di solito non pronunciamo questo nome che¸ come ho detto¸ secondo antichi studiosi si pronunciava Yahweh. Di solito non lo pronunciamo¸ ma siccome questa mattina devo spiegare la lettura¸ devo pronunciarlo. E’ molto interessante questo brano dell’Esodo. Certamente qui sono fuse insieme due diverse narrazioni dell’episodio del roveto: una prima narrazione¸ che è forse più antica ma inserita nel testo in epoca posteriore¸ è quella che conosce il nome Yahweh da sempre. Lo adopera già nel Libro della Genesi¸ non lo presenta come un nome che Dio avrebbe rivelato a Mosè ma come un nome tradizionale antico¸ da sempre noto¸ che viene già utilizzato da questi autori nel racconto stesso della creazione. Nel capitolo 2 e 3 della Genesi¸ quando si parla della creazione dell’uomo¸ Dio è chiamato Yahweh¸ è lui che pianta il giardino¸ dà all’uomo la vita¸ gli dà il precetto di non mangiare l’albero. Ci sono una quantità di testi¸ che infatti gli studiosi chiamano Yahvisti proprio perché adoperano sempre¸ come se fosse ovvio¸ questo nome di Dio. Un’altra tradizione¸ che probabilmente era quella delle tribù della Palestina centro settentrionale¸ presenta invece questo nome Yahweh come manifestato per la prima volta a Mosè nell’episodio del roveto. E questa tradizione¸ solitamente prima di questo episodio¸ chiama Dio con il nome comune con cui lo chiamano tutti i semiti¸ cioè El che è la stessa radice di Allah. E’ il nome di Dio in tutte le lingue¸ che noi chiamiamo come classificazione meramente linguistica non etnica¸ lingue semitiche¸ dall’accadico all’aramaico. El¸ che vocalizzato diversamente suona Elohim¸ con un plurale di eccellenza¸ come lo chiamano i grammatici e¸ in arabo¸ suona Allah. E’ il nome tradizionale di Dio. Infatti il testo dice che questo era il nome dei patriarchi: il Dio di Abramo¸ il Dio di Isacco¸ il Dio di Giacobbe¸ El. Questo nome¸ Jahvè¸ in realtภera un altro nome di Dio¸ più antico o altrettanto antico¸ che veniva usato da altre popolazioni. Direi che¸ secondo gli studiosi¸ era un nome minoritario nel senso che alcune tribù chiamavano Dio con questa radice¸ Yahweh¸ che non si sa che cosa significasse in origine¸ presso appunto queste popolazioni o tribù seminomadi isolate che adoperavano questo nome. Si cerca di indovinare che cosa potesse significare¸ ma non si sa. Il fatto che qui venga collegato ad un roveto che apparentemente brucia¸ vanno a cercare delle possibili etimologie che parlino di qualcosa di bruciante¸ ma la cosa è puramente ipotetica. L’idea geniale che ebbero i redattori della Bibbia¸ e che ha poi influenzato una quantità di teologie posteriori¸ è di interpretare questo nome Yahweh¸ che qualche volta viene usato in una forma abbreviata¸ Yah (che è quello di “allelu Yah” – lodate Yah)¸ per cui ci si domanda se Yah è un’abbreviazione di Yahweh o se¸ al contrario¸ Yahweh è un allungamento del vecchio nome di Yah. Noi diciamo alleluia¸ non in quaresima¸ e usiamo questa metà del nome sacro e impronunciabile che anche gli ebrei usano perché Yahweh non lo dicono ma allelu Yah continuano a dirlo. Per dire che c’è un po’ di incoerenza non solo nel cristiano ma anche nelle altre religioni. Interessante è il fatto che l’autore di questi testi biblici¸ in questo nome Yahweh vede una forma verbale di un verbo che è usato nell’ebraico antico¸ che esiste ancora in aramaico¸ nella parte più recente delle lingue semitiche e che significa essere. E’ questa la genialità. Chissà se poi la storia etimologica di questo nome Yahweh veniva veramente da un verbo essere. La cosa che ha determinato tutta una riflessione teologica posteriore nell’ebraismo e nel cristianesimo¸ è la scelta di questi autori che¸ come dicevo¸ sono probabilmente quelli dell’ebraismo centro settentrionale¸ della parte montuosa e centrale della Palestina¸ è di avere recuperato questo nome Yahweh collegandolo ad una forma verbale¸ ad una terza persona di un modo di coniugare questo verbo in una determinata forma è il verbo che significa essere. Tra l’altro significa essere con una caratteristica che è tipica anche questa delle lingue semitiche¸ che assomiglia di più all’essere vivo¸ essere operante¸ essere attivo¸ esserci¸ non semplicemente quell’essere da poco¸ quell’essere che i grammatici di greco e latino chiamano copula e che serve semplicemente per attribuire ad un soggetto¸ una serie di qualità: è buono¸ è intelligente¸ è alto¸ è basso. Queste frasi¸ nelle lingue semitiche¸ si dicono senza verbo¸ certamente non con il verbo essere. Il verbo essere si adopera per dire esserci¸ vale a dire essere attivo¸ essere presente¸ essere vivo¸ essere comunicativo. Questo ha dato origine ad una visione di Dio come colui che è l’origine¸ la fonte di tutto ciò che esiste e¸ soprattutto¸ di tutto ciò che non è inerte nel suo esistere ma che è vivo. Adesso i due racconti sono fusi insieme¸ come se l’El dei patriarchi¸ il vecchio Dio¸ si presentasse come un Dio assopito e dormiente che adesso si è accorto che il popolo soffre in Egitto e fa suo il nome: “Ma io ci sono¸ io non posso disinteressarmi di queste cose ¸ io sono quello che è¸ io sono colui che ha in sé vigilanza¸ potenza¸ capacità di capire. Ci sono e devo manifestarlo”. E¸ allora dice: “Io ho visto l’oppressione¸ scendo per liberarvi”. E il racconto immagina che Mosè gli dice: “E cosa dico io agli ebrei? Che razza di Dio è questo che ti ha parlato? Perché anche loro sanno che c’è una quantità di dei fasulli¸ di dei falsi¸ di dei costruiti dall’uomo con le sue fantasie e proiezioni”. “E tu dirai loro che io” e qui si adopera la prima persona “sono chi sono”. Può voler dire “Non posso dirti veramente la mia natura¸ sono quel che sono”. Potrebbe avere un senso positivo “Sono quello che ha tutta la potenza e la forza dell’essere”. Tra l’altro¸ secondo alcuni grammatici¸ la forma in terza persona Jahvè potrebbe essere la forma di un causativo: io faccio essere. Allora¸ il Jahvè degli eserciti è colui che fa essere le cose¸ il creatore¸ e allora nasce questa svolta nella religione ebraica che ha avuto un successo che dura fino ai nostri giorni: Dio non è una specie di idolo estraneo che¸ per precauzione¸ è meglio onorare perché non si sa mai¸ ma Dio è persona la quale vigila¸ vede¸ osserva¸ si accorge dell’oppressione¸ del dolore¸ della sofferenza e mette in atto il suo potere per migliorare la situazione. E’ l’essere che risana¸ l’essere che salva¸ è colui che fa essere. E’ il Dio della forza vitale dell’essere. Questa è la radice dell’ebraismo che poi diventa cristiano. Quando si dice che Gesù è risorto dai morti¸ come lascia intuire il vangelo di Giovanni¸ è Dio che in Gesù dice: “Io sono¸ sono la vita¸ scavalco la morte¸ io faccio esplodere l’essere dappertutto”. Per questo la filosofia medioevale¸ via san Tommaso¸ ha visto in quella frase l’essere che¸ per natura sua¸ non perché l’ha ricevuto da altri¸ da genitori¸ da forze¸ è l’essente¸ colui la cui essenza è non essere qualcosa ma essere e basta¸ cioè essere la fonte di tutto quello che esiste. La vecchia filosofia¸ che è poi filosofia greca¸ diceva: l’essere che è origine di ogni ente¸ tutto quello che esiste partecipa di questa potenza di base che è l’essere ed è il tomismo¸ c’era già anche prima¸ ciò che san Tommaso ha sistemato rendendolo scolasticamente accessibile a tutti e che ha costituito l’essenza della filosofia europea. Noi crediamo in un Dio il quale sostiene l’essere e la vita¸ è il Dio dell’esserci quindi è Dio amabile¸ affidabile. Curioso il fatto che appaia a Mosè come roveto che brucia ma non si consuma¸ cioè la potenza dell’essere che si presenta apparentemente come distruttiva ma che non distrugge. E’ la potenza del “sí” rispetto a tutti i possibili “no” che la cattiveria umana o il disordine della natura¸ qualche volta¸ provoca. E cosí nasce nel cristianesimo questa fiducia irrinunciabile nel Dio affidabile¸ nel Dio che è la garanzia della continuità dell’essere. Questa dimensione¸ che è mitica e filosofica nello stesso tempo¸ della nostra fede secondo molti è qualcosa di cui il mondo moderno¸ tentato di pessimismo¸ ha bisogno.