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Omelia IV PASQUA B del 3 Maggio 2009

Nella prime tre domeniche di Pasqua si leggono i vangeli delle apparizioni del Risorto e¸ in un certo senso quindi¸ si riflette sull’evento della risurrezione. Poi¸ nelle domeniche successive¸ si legge sempre un brano del capitolo 10 del vangelo Giovanni dove Gesù è presentato sotto l’immagine del pastore. Non si legge il testo di seguito nella sua interezza ma nei tre anni della suddivisione liturgica si prendono dei brani isolati dal medesimo discorso e si presentano nella liturgia. Quest’anno capita questa parte del discorso che incomincia con la¸ chiamiamola parabola¸ la parabola del mercenario¸ poi la dichiarazione degli intenti del vero pastore che è Gesù ed infine una riflessione sulla morte di Gesù che è¸ all’interno di questo testo¸ la parte più complicata da interpretare. Diamo un’occhiata ai tre momenti della lettura evangelica in maniera¸ spero¸ breve. La prima descrizione è abbastanza convenzionale ma questo è normale perché in tutto il mondo antico pecora e pastore¸ basta ricordare Esopo¸ erano già diventati dei tipici personaggi della letteratura educativa¸ per l’infanzia e per gli adulti. Quindi sia il lupo¸ sia le pecore¸ sia il pastore perdevano gran parte del realismo di fatto e diventavano delle figure simboliche¸ ognuna delle quali aveva delle caratteristiche ormai stereotipate. Gesù entra¸ adotta¸ partecipa a questo utilizzo dell’immagine del pastore¸ del lupo¸ della pecora e anche lui presenta le figure in maniera abbastanza stilizzata e¸ direi¸ abbastanza convenzionale e teorica. Il lupo¸ al singolare¸ ad esempio¸ non è un pericolo cosí disastroso per il gregge da mettere in discussione addirittura il rischio di morte per il pastore. Bisognerebbe parlare di un branco di lupi¸ allora sí che la faccenda può diventare un pochino più complicata¸ ma¸ come dicevo¸ non c’è realismo¸ è un modo convenzionale di presentare le cose. E quello che probabilmente il vangelo di Giovanni mette in bocca a Gesù è semplicemente il contrasto tra un mercenario¸ il quale giustamente ritiene che la sua vita vale più di quella delle pecore¸ anche perché le pecore non sono sue e se lui è un mercenario vuol dire che il padrone del gregge è molto ricco e quindi ha una quantità di pecore e se qualche pecora se la mangia il lupo¸ uno non mette a rischio la sua vita. La dichiarazione “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” non ha quindi niente a che fare con il moralismo reale della vita di un custode di pecore¸ anzi¸ penso che anche a quel tempo si sarebbe dovuto dire: “Guarda che la tua vita conta di più di quella delle pecore¸ se capitasse qualche pericolo salva te stesso e lascia perdere le pecore”. Quindi è¸ come vedete¸ una trasformazione a livello direi quasi illustrativo in maniera convenzionale¸ per sottolineare questa differenza tra Gesù e la figura stereotipata del mercenario. Quindi¸ anche qui¸ in realtภnon si parla di pecore¸ attraverso questo modo un po’ ingenuo¸ un po’ primitivo¸ se volete¸ di presentare le cose si vuole parlare della identità di Gesù e della sua intenzione e della sua opera di salvatore. La parola pastore acquista l’altro significato¸ pure convenzionale dell’antichitภdi colui che regge il popolo. Il pastore è il re¸ anzi¸ direi che nel vangelo di Giovanni la parola pastore è l’equivalente di quello che in altri testi è re d’Israele¸ re dei Giudei¸ come c’è scritto sul titolo della croce. Che re e pastore siano due parole che si sovrappongono l’una all’altra c’è già nell’Illiade e tutte queste cose le sappiamo da quando abbiamo studiato alle scuole medie. Allora quello che si vuole dire è in che senso Gesù è re¸ in che senso Gesù dirige e governa il popolo che appartiene a Dio e la risposta è: dà la vita per le pecore . Ma non si parla di pecore¸ si parla di persone¸ di uomini¸ è colui che offre la sua vita. Ora questa espressione¸ nella sua forma¸ come appare la prima volta nel testo il pastore¸ come si deve dà la propria vita per le pecore¸ non necessariamente significa subito e soltanto la morte¸ significa prima di tutto che mette tutte le sue energie e tutte le sue capacità a servizio delle pecore. Il dare la vita è il servizio. Pastore non è colui che sfrutta le pecore¸ che governa le pecore. E già in Ezechiele questa rappresentazione del pastore come Dio vuole che sia era proprio quella di colui il quale dedica tutto sé stesso al bene del gregge¸ quindi è la cura¸ la custodia¸ la sollecitudine¸ l’interesse e dare la vita¸ ripeto¸ significa dedicarsi con impegno¸ con onestภcon spirito di sacrificio. Questo è il vero pastore. Quindi in un primo livello del testo¸ Gesù dichiara di essere uno che prende sul serio i bisogni delle pecore e dedica tutte le sue energie alla loro custodia¸ alla protezione della loro vita. Un secondo elemento è caratteristico del modo di pensare e di presentare le cose di Giovanni ed è la mutua conoscenza per cui la figura del pastore non è semplicemente la figura di colui che è potente¸ che ha dei mezzi¸ che è più esperto e capace delle pecore e mette la sua superiorità a servizio del gregge ma è colui che crea vincoli di amicizia¸ di mutua conoscenza. “Conosco le mie pecore¸ le mie pecore conoscono me” e¸ addirittura¸ l’evangelista dice: “Come il Padre Dio conosce me ed io conosco il Padre”. Quindi un livello di conoscenza non superficiale¸ un livello di conoscenza che non si basa sul sentito dire¸ sull’apparenza¸ sull’ipotesi ma conosce nella profondità e nella verità la natura delle persone. Allora qui la figura del re¸ anche questo è caratteristico dell’antico oriente¸ si mescola con quella del saggio¸ del sapiente¸ colui il quale ha le doti e le capacità di vedere anche quello che non si vede a prima vista. Conosce il cuore¸ vede e interpreta le intenzioni ed allora vedete che di nuovo questa figura di Cristo re si amplia e si approfondisce. Le stesse cose sono presenti anche nella tradizione sinottica con altra terminologia: “Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”. A questa idea della sollecitudine si unisce quella della sapienza¸ della conoscenza per cui¸ come vedete¸ l’intento è quello di dimostrare come un credente¸ uno che diventa cristiano deve interpretare la sua relazione con Gesù come deve comprendere il rapporto che si crea. Per questo l’evangelista approfitta anche per aggiungere un’idea che certamente nel mondo ebraico del tempo di Gesù non era diffusa e che era stata invece diffusa dagli ebrei diventati cristiani¸ cioè ci sono altre pecore al di fuori del recinto del mondo ebraico ed anche quelle devono essere guidate dal pastore Gesù e anche loro “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”¸ non due gruppi: gli ebrei e i non ebrei. E questo pensiero¸ lo sapete bene¸ c’è anche¸ molto approfondito¸ nella Lettera agli Efesini: “Egli ha fatto dei due un popolo solo¸ quelli che erano lontani sono diventati vicini” e si introduce questa idea della universalità e della compartecipazione fraterna per cui scompaiono le distinzioni. L’ebreo non deve dire: “Io ero prima di te il conoscitore del vero Dio¸ o pagano ignorante!” e il pagano non deve dire: “Però io adesso sono diventato cristiano e tu invece sei quasi un rinnegato”. E su questo punto già Paolo nella Lettera ai Romani raccomanda di non cadere in queste contrapposizioni. Poi la Lettera agli Efesini lo sviluppa perché deve esserci nel linguaggio giovanneo un solo gregge¸ un solo pastore. Ed è la grande prospettiva dell’unità di tutti gli uomini in una sorta di amicizia che comprende tutti. Questo è il dare la vita. Dare la vita vuol dire mettere a disposizione tutta la potenza di Dio perché si realizzi questa realtà di umana concordia¸ fraternità senza limiti. E tutto questo avviene non per regolamenti¸ leggi. San Paolo insiste molto nel dire che la legge era provvisoria¸ non porta le cose alla conclusione¸ avviene mediante questo rapporto vitale. Noi completeremmo volentieri il discorso dicendo che bisognerebbe nominare subito quello che invece l’evangelista aspetta a nominare nei capitolo 14 e 16: lo Spirito Santo. Perché in realtà Gesù¸ sempre secondo il N.T.¸ realizza questa trasformazione del mondo in una unica famiglia attraverso la silenziosa¸ invisibile presenza del suo Spirito che è lo Spirito stesso di Dio che diventa Spirito di Cristo cioè Spirito che conosce i bisogni dell’uomo e che penetra in tutte le coscienze credenti e le rende capaci di diventare un solo gregge¸ un solo pastore¸ un solo popolo¸ un’unità dove nessuno è represso¸ condannato ma dove tutto¸ è un po’ utopica la cosa¸ lo capisco¸ ma dove tutto può essere una cosa sola pur nel rispetto dell’individualità e delle diversità. L’ultimo pensiero del vangelo è quello espresso linguisticamente in maniera meno elegante di tutto il resto e cioè che tutto questo deriva dalla croce di Cristo. Il buon pastore è colui il quale produce nel mondo questo cambiamento di rapporti¸ questo risanamento delle relazioni dando la vita non solo¸ come dicevo prima¸ spendendo tutte le sue energie a favore del bene degli altri¸ ma dando la sua vita nella compartecipazione al mistero della morte. E qui l’evangelista si sforza di dire che la morte di Gesù è come la nostra morte¸ però¸ a differenza di Marco¸ Matteo e Luca¸ vuole anche sottolineare un aspetto che in quei vangeli è meno presente e cioè che¸ in ogni caso¸ il morire di Gesù¸ pur essendo come il nostro¸ direi doloroso e tragico come il nostro morire¸ è anche¸ nello stesso tempo¸ completamente diverso perché è un morire compenetrato di vita¸ che¸ in un certo senso¸ annulla la negatività della morte. E’ un concetto che non è facile da esprimere però¸ mentre è caratteristica della descrizione di Marco¸ per esempio¸ del morire di Cristo¸ il fatto che Gesù non si è avvalso della sua divinità per rendere la sua morte meno dolorosa¸ meno tragica¸ anzi¸ Marco¸ se volete¸ esagera perfino nel mostrare il crocifisso come il più sofferente di tutti i morenti: “Dio mio perché mi hai abbandonato?”¸ la domanda che al momento non ottiene risposta¸ e Matteo più o meno rimane allo stesso livello¸ Luca incomincia ad ammorbidire la cosa: “Padre¸ nelle tue mani affido il mio Spirito”¸ non c’è più l’abbandono ma c’è la consegna libera e la consapevolezza che quella morte è uguale alla brutta morte che può capitare a tutti ma è¸ nello stesso tempo¸ una morte diversa dalle altre morti: morte nella fede¸ nella pace¸ nella speranza. Il quarto evangelista va oltre e con una frase che dà addirittura l’impressione che sia una morte vissuta per finta: “E’ solo un’impressione¸ nessuno me la toglie la vita¸ la do da me stesso¸ ho il potere di darla¸ il potere di riprenderla”. Come se Gesù fosse il padrone della morte. Rasenta¸ bisogna avere l’onestà di dirlo¸ rasenta l’idea di un suicidio assistito¸ nel senso che tocca a Pilato deciderlo e ai crocifissori eseguirlo¸ vissuto con distacco perché poi la vita la riprende. E’ una brutta frase¸ mal riuscita perché da questa impressione¸ sgradevole¸ di Gesù il quale si dichiara superiore: “Per me morire non è come per voi¸ io muoio diversamente¸ per me morire è roba da ridere”¸ questa è l’impressione che Giovanni crea ed immagino che abbia fatto mesi di purgatorio per riparare questa sua imprecisione di linguaggio¸ ma se ci pensate bene¸ l’intenzione¸ almeno vogliamo essere benevoli con l’evangelista¸ l’intenzione è quella di far capire che nel morire di Gesù¸ a differenza di quello che accade nelle altre morti¸ c’è un vantaggio per tutti. Se il mercenario moriva nel tentativo di salvare qualche pecora era soltanto una perdita¸ anche se avesse salvato tutte le pecore la sua vita umana era perduta¸ era inutile quella morte. E’ una morte che non produce niente e¸ a pensarci bene¸ non ci sono morti che producono qualcosa. Quando c’era la cultura della guerra si credeva che il morire fosse necessario. Per produrre cosa? Conquista di territori¸ libertภe molte volte io ho insistito nel dire che una delle meraviglie degli anni che stiamo vivendo è che sia scomparsa questa idea che la guerra ha un senso. La morte non serve a niente¸ è inutile. Probabilmente l’evangelista si rende conto che molti suoi lettori o ascoltatori potrebbero pensare che anche la morte di Gesù è una morte nobile¸ gloriosa ma non serve a niente. Non è servita a niente neanche la morte di Socrate¸ suicidio mal recitato da un vecchio. Una sciocchezza. Lo so che voi vi arrabbiate perché bisogna dire¸ per ordine di scuderia¸ che Socrate è un grande. La morte di Socrate è la stupidità di un vecchio. Probabilmente il mio bravo evangelista non voleva che la morte di Gesù fosse interpretata allo stesso modo ed allora ha cercato di stravolgerla e l’ha fatta diventare l’unica morte che serve perché divinamente vissuta¸ divinamente voluta. E’ un punto difficilissimo questo. Dire che la morte è fonte di vita è pericolosissimo perché con la scusa che la morte è fonte di vita tu mandi i ragazzi a morire in guerra come successe nella prima e nella seconda guerra mondiale e credi che questo sia un sacro dovere della patria. Cose orrende. Bisogna stare attenti perché può essere scandaloso: anche Cristo ha detto che qualche volta bisogna morire perché la vita trionfi. Il quarto evangelista è consapevole del pericolo di questa esaltazione della morte¸ allora cerca di trasformare la morte di Cristo in un caso che non è esemplare per nessuno¸ che nessuno deve cercare di imitare¸ un caso unico. Lo dice con parole improprie. E’ la stessa cosa che il resto della tradizione dice con il versetto che avete recitato dopo il salmo: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo¸ cioè il sostegno dell’edificio¸ con la differenza che quello che gli altri evangelisti mettono in bocca ai credenti come Confessione di fede¸ e questo lo fa spesso¸ il quarto evangelista lo mette in bocca a Gesù¸ mentre gli altri dicono: “Gesù è stato…” il quarto evangelista ama dire che Gesù per primo disse: “Io sono…” e cosí mentre il credente dice “La morte di Cristo unica nel suo genere¸ nessun’altra morte può essere ad essa assimilata¸ è stata fonte di vita”¸ il quarto evangelista lo fa dire a Gesù: “Io lascio la mia vita per poi riprenderla¸ ho il potere”. Direi che è una gaffe a livello di espressione linguistica ma è una idea che ha la sua profondità teologica.